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“Macchine volanti e tempeste d’acciaio” – In mostra l’opera di BERTOS, “Macchine & Mappe”

Tutta la storia dell’arte è fatta di opere che rinviano ad altre opere. Nessuna idea può essere del tutto “nuova” ossia non soltanto unica in sé, ma affatto diversa da tutto ciò che è venuto prima, slegata da reminiscenze passate. Talune analogie possono essere casuali o non intenzionali, perché la mente dell’artista rielabora di sovente in maniera inconscia. In questo caso possiamo parlare di “consonanze” piuttosto che di “influenze artistiche” vere e proprie.

In tal senso, appare emblematica l’opera di Bertos (Renato de Robertis), “Macchine & Mappe” in mostra presso Istituto “C. Vivante” di Bari, piazza Diaz 10, il 18 dicembre e nei giorni 14, 15, 21 e 22 gennaio del 2023, che lega la sua ricerca pittorica all’astrattismo novecentesco, sia italiano che internazionale.

Tuttavia, è d’uopo precisare che l’astrattismo non è un “mare magnum” indistinto. All’astrattismo “puro”, in cui la raffigurazione pittorica non è riconducibile ad oggetti reali bensì a pure forme geometriche, appartengono le opere della serie delle “Mappe”. Qui il richiamo è all’astrattismo di un Kandinsky, o, restando in ambito italiano, di RadiceRhoMagnelli, ReggianiSoldatiMiniati.

“Segmenti di speranza” (2022), infatti, richiama alla mente importanti opere dell’astrattismo italiano, come “Composizione R.S.” (1940) di Mario Radice (Como 1898-1987) uno dei capiscuola dell’astrattismo italiano, che implica limpide geometrie e colori puri, che assumono consistenza materica nell’uso della tecnica della tempera su tela.

Ben diversa è la serie delle “Macchine”, che fa da contrappunto alle terse geometrie delle “Mappe”. Nelle “Macchine” di Bertos troviamo una “figurazione fatta di macchine animate, oggetti metallici che stridono e sagome che originano un mondo tecnologico insieme improbabile e primitivo” (catalogo della mostra). Macchine che si rivelano come ibridi di meccanismi antichi: una catapulta che pare rinviare alle famose macchine del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci; o addirittura arcaici: lame appuntite che ricordano lance preistoriche; e meccanismi moderni: i missili nell’opera “Intrappolate i missili”; o avveniristici: inusitati cannoni laser. Il tutto immerso in un paesaggio per l’appunto “astratto” ed estremamente cupo, dove non esiste l’elemento umano né il dato naturalistico. Una eliotiana “Terra desolata” percorsa da jungeriane “Tempeste d’acciaio”.

Appare evidente quindi che ci troviamo dinanzi ad una sintesi di diverse correnti del ‘900 rielaborate attraverso la sensibilità dell’artista che vive ed opera nell’epoca attuale: quasi tutte le opere in mostra sono dell’anno 2022. All’astrattismo “puro” delle Mappe fa da contrappunto la serie delle Macchine, in cui si ravvisano differenti contaminazioniEchi del futurismo: la posa dei guerrieri meccanici che vagamente rammentano i compositi manichini di Carrà e De Chirico, analoga a quella di “Forme uniche nella continuità dello spazio” di Boccioni. Di metafisica: l’insistito richiamo al declino della Civiltà Occidentale, rappresentata icasticamente attraverso rovine di colonne doriche e ioniche. Del surrealismo: oggetti che si animano e sono rappresentati in maniera volutamente ambigua: talora appaiono addirittura sanguinanti. E dell’espressionismo, soprattutto tedesco.

Inevitabile il raffronto con il ciclo “Armi” (1965) di Pino Pascali (Bari 1935 – Roma 1968), raffronto dal quale, tuttavia, emergono non tanto le analogie tematiche, come la denuncia dell’assurdità delle guerre – comune ai due artisti – quanto le differenze tecniche e di stile: Pascali realizza delle sculture, e rappresenta le armi come grossi giocattoli, usando la sua consueta ironia per destabilizzare l’osservatore, mentre Bertos si richiama implicitamente alle esperienze belliche rappresentate dagli espressionisti tedeschi.

Non a caso a conclusione della sequenza di opere, appare emblematica la tela Ukraine (2022) che sembra quasi, mutatis mutandis, un ritorno alla “Nuova oggettività” (Neue Sachlichkeit) di George Grosz (Berlino 1893-1959) e Otto Dix (Untermhaus, Gera 1891 – Singen 1969): un secolo dopo, la condanna della guerra è la stessa, espressa attraverso la rappresentazione di una città dove divampa il rosso delle fiamme e del sangue. Un’opera purtroppo tremendamente attuale.

Articolo di Simone De Bartolo

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